LA PRIORITÀ È IL DISSESTO IDROGEOLOGICO

Quello dell’alluvione nelle Marche è un bilancio tragico: 11 morti e, nel momento in cui scriviamo, 2 dispersi. Nell’ultimo decennio le vittime di eventi meteo estremi e disseto idrogeologico sono state centinaia, ma nonostante questo l’Italia non sembra capace di mettere in primo piano quella che di fatto è una vera e propria emergenza, anche economica. La perdita legata ai danni idrogeologici negli ultimi 40 anni, infatti, nel nostro Paese, che ha il triste primato europeo, ammonta a 51 miliardi di euro (dati European Environment Agency). Di questa enorme quantità di denaro solo il 10% verrebbe indennizzato dallo Stato, mentre il restante 90% rimarrebbe a carico degli sfortunati cittadini e imprese colpiti dalle calamità. Ogni volta che avviene una tragedia – ricordiamo quanto accaduto l’anno scorso in Triveneto, Calabria e Sardegna – si torna a parlare del problema del dissesto idrogeologico, che non riesce però a rimanere in cima all’agenda politica e governativa abbastanza a lungo perché si arrivi ad una svolta. Eppure i dati ci sono. A fornirci un’idea della situazione c’è il rapporto Ispra dello scorso dicembre dal titolo “Dissesto idrogeologico in Italia: pericolosità e indicatori di rischio – Edizione 2021 (Trigila A., Iadanza C., Lastoria B., Bussettini M., Barbano A.).

La pubblicazione Ispra fornisce i dati su frane, alluvioni ed erosione costiera, producendo un quadro di riferimento sulla pericolosità e diffusione di questi fenomeni. Da questo quadro emerge un dato su tutti: un cittadino su dieci vive in una zona a rischio idrogeologico, grande o moderato. Ma vediamo i dati più nel dettaglio. Il 93,9% dei comuni italiani (7.423) è a rischio per frane, alluvioni e/o erosione costiera, con 1,3 milioni di abitanti a rischio frane e 6,8 milioni di abitanti a rischio alluvioni. “Le famiglie a rischio sono quasi 548.000 per frane e oltre 2,9 milioni per alluvioni. Su un totale di oltre 14,5 milioni di edifici, quelli ubicati in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata sono oltre 565.000 (3,9%), quelli ubicati in aree inondabili nello scenario medio sono oltre 1,5 milioni (10,7%)”, si legge nel rapporto, che presenta anche un nuovo indicatore, quello sugli aggregati strutturali a rischio frane: “Le industrie e i servizi ubicati in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata sono oltre 84.000 con 220.000 addetti esposti a rischio; quelli esposti al pericolo di inondazione nello scenario medio sono oltre 640.000 (13,4% del totale)”. L’Italia, è bene ricordarlo, è anche Paese dall’incommensurabile valore culturale, con oltre 213.000 beni architettonici, monumentali e archeologici. Tra questi, si legge nel rapporto Ispra, “quelli potenzialmente soggetti a fenomeni franosi sono oltre 12.500 nelle aree a pericolosità elevata e molto elevata; raggiungono complessivamente le 38.000 unità se si considerano anche quelli ubicati in aree a minore pericolosità. I Beni Culturali a rischio alluvioni sono quasi 34.000 nello scenario a pericolosità media e raggiungono quasi i 50.000 in quello a scarsa probabilità di accadimento o relativo a eventi estremi”.

Nell’introduzione alla pubblicazione Ispra è proprio il direttore generale, Alessandro Bratti, a mettere a fuoco il contesto e le possibili cause di una tale situazione: “Alla naturale propensione del territorio al dissesto, legata alle sue caratteristiche meteo-climatiche, topografiche, morfologiche e geologiche, si aggiunge il fatto che l’Italia è un paese fortemente antropizzato. L’incremento delle aree urbanizzate, verificatosi a partire dal secondo dopoguerra, spesso in assenza di una corretta pianificazione territoriale, ha portato a un considerevole aumento degli elementi esposti a rischio, ovvero di beni e persone presenti in aree soggette a pericolosità per frane e alluvioni. Le superfici artificiali sono passate infatti dal 2,7% negli anni ‘50 al 7,11% del 2020 e nel contempo l’abbandono delle aree rurali montane e collinari ha determinato un mancato presidio e manutenzione del territorio. – afferma – I cambiamenti climatici in atto stanno inoltre determinando un aumento della frequenza degli eventi pluviometrici intensi e, come conseguenza, un aumento della frequenza delle frane superficiali, delle colate detritiche e delle piene rapide e improvvise (flash floods)”. Alla luce di quanto abbiamo esposto sin qui è legittimo porsi alcune domande. Ha senso pensare prioritariamente a strategie Green e alla digitalizzazione se queste vengono innestate su un terreno, metaforico e reale, così fragile? O le nostre limitate risorse economiche dovrebbero essere orientate prima a mettere in sicurezza il nostro territorio? Il dibattito di oggi si proietta verso un futuro e verso obiettivi per proteggere l’ambiente sul lungo periodo, finalizzati ad arginare il riscaldamento globale. Questioni sicuramente importanti, ma i popoli che pensano solo al domani senza occuparsi dell’oggi rischiano di non avere il futuro che progettano.

Accanto agli obiettivi a lungo termine è indispensabile, infatti, creare le basi affinché quei progetti si possano realizzare. Sarebbe allora il momento di dare slancio alle strategie di contenimento dei danni da eventi climatici estremi che, come abbiamo visto, a seguito dei cambiamenti climatici sono sempre più frequenti. Occorre pensare a stanziare risorse economiche che di fatto rappresenterebbero un investimento, perché il risarcimento dei danni è più costoso della prevenzione, ma occorre anche rendere più snelle le procedure di messa in sicurezza del territorio, spesso osteggiate dal conservazionismo ambientalista e ancor più dai cavilli burocratici nei quali i progetti si incagliano. Il caso delle Marche – sono in corso un’inchiesta della procura e un ricorso al Tar di Ancona – è in questo senso emblematico. Da quanto emerso il Consorzio Bonifica delle Marche nel 2019 aveva presentato un progetto, definito d’urgenza, per salvare il Misa da una possibile esondazione, progetto approvato nel 2020 ma bloccato nel 2021 per un cavillo legato alla salinità del materiale da estrarre dal fiume. Se quanto emerso fosse confermato significherebbe che nel nostro Paese, prima ancora che per il dissesto idrogeologico, si muore di burocrazia. Un fatto inaccettabile, come incomprensibile è che in Italia manchi ancora un Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico e ai grandi eventi atmosferici, che avrebbe l’obiettivo di mettere in atto strategie di adattamento, preparandoci ad evitare il più possibile le gravi ripercussioni dei fenomeni climatici estremi.


“Primo piano”, di Valeria Bellagamba, Caccia & Tiro 10/2022.


È incomprensibile che nel nostro Paese manchi ancora un Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico e ai grandi eventi atmosferici, che avrebbe l’obiettivo di mettere in atto strategie adeguate, preparandoci ad evitare il più possibile le gravi ripercussioni dei fenomeni climatici estremi – Foto “Dissesto Italia”

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