Lo scorso 22 maggio, come ogni anno, è stata celebrata la “Giornata mondiale della biodiversità” proclamata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu) al fine di sensibilizzare la popolazione sul tema della diversità biologica, di riflettere e programmare possibili soluzioni per arrestare la sua predita. Quest’anno per la giornata è stato scelto lo slogan “Costruire un futuro condiviso per tutta la vita” e il tema principale è proprio il focus sulle azioni da mettere in atto per proteggere e ripristinare la biodiversità. È dagli anni ’90 che tra paesi si siglano accordi e si fanno programmi sul tema. Risale al 1992 la “Convenzione per la diversità biologica” (Cbd) e proprio quest’anno si svolgerà la Cop-15, la Conferenza delle parti che hanno sottoscritto la Convenzione. L’incontro sarà anche l’occasione per fare il punto sul “Piano strategico mondiale per la biodiversità”, approvato a Nagoya (Giappone) per il periodo 2011-2020, e sul nuovo accordo Onu che lo sostituirà, il “Quadro globale per la biodiversità per il post-2020”. Le conferenze sull’ambiente, sul clima o sulla biodiversità sono sempre un’ottima occasione per parlare delle problematiche legate al nostro patrimonio verde e siamo ormai abituati agli svariati consessi internazionali durante i quali i grandi della terra siglano accordi e programmano strategie, anche se la funzione di questi summit sembra avere più influenza e conseguenze sull’opinione pubblica (il che è comunque un bene) che sull’ambiente stesso, perché, nonostante i buoni propositi, nel concreto i paesi riescono a fare qualcosa, ma non si avvicinano neanche lontanamente agli obiettivi fissati.
Purtroppo anche il caso della biodiversità non fa eccezione. Alla fine del 2020 è stata infatti pubblicata la quinta edizione del “Global Biodiversity Outlook” (Gbo-5), dal quale risulta che nessuno degli obiettivi fissati (chiamati nella Convenzione Aichi Biodiversity Targets) è stato pienamente raggiunto. Secondo quanto riportato in un comunicato dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) “Gli esperti imputano i fallimenti nel raggiungimento degli obiettivi a una generale mancanza di investimenti, risorse, conoscenze e responsabilità nei confronti della conservazione della biodiversità. Gli obiettivi nazionali adottati in ciascun paese partecipante non sono sempre stati in linea con i target di Aichi e la somma dei risultati raggiunti dalle singole nazioni non è stata sufficiente per raggiungere gli obiettivi globali”. Uno dei pochi progressi soddisfacenti è stato fatto per ciò che riguarda l’istituzione delle aree protette sul 17% del territorio e sul 10% dei mari, obiettivi raggiunti rispettivamente per il 16,6% e per il 7,7%.
Le responsabilità, secondo l’Ipbes, la massima autorità scientifica mondiale sulla biodiversità, sembrerebbero legate, come si ricorda nel comunicato Ispra “alle attività umane: distruzione, frammentazione e degradazione di habitat terrestri e marini; prelievo eccessivo di risorse biologiche (con la pesca soprattutto); inquinamento ambientale; cambiamenti climatici; diffusione di specie aliene invasive. L’Ipbes cita anche i principali fattori indiretti del declino della natura: l’aumento della popolazione e dei consumi pro capite di risorse naturali; l’innovazione tecnologica, che in alcuni casi ha ridotto ma in molti casi ha aumentato gli effetti negativi sulla natura; i deficit di governance e di responsabilità della politica”.
Questi dati spingono a due riflessioni. Vietare è relativamente facile, creare aree protette anche, infatti tra i 20 obiettivi quello delle aree protette è tra i pochi quasi raggiunti. Proteggere, in ogni caso, non basta, anzi, in una situazione di piena armonia con la natura forse non ci sarebbe neanche necessità di aree protette. E qui arriviamo alla seconda riflessione: i governi hanno realizzato gli obiettivi più semplici, senza invece agire più in profondità, mettendo in atto quelle molteplici politiche che potrebbero ridurre la pressione delle attività antropiche sugli equilibri ambientali.
Vietare e proteggere – i cacciatori lo sanno bene perché spesso queste azioni vengono presentate come la panacea di tutti i mali dagli ambientalisti nostrani – è quindi tra le attività più facili da mettere in atto, mentre gestire, attraverso un approccio realmente scientifico e lavorando su progetti anche di lungo respiro, è difficile, anzi impossibile se alla base non c’è un solido impegno di chi governa, un’idea di futuro che vada oltre il proprio interesse particolare e la temporalità dell’incarico rivestito, al di là delle legislature e delle correnti politiche. È proprio quel tipo di impegno che manca oggi, ma è quel tipo di impegno che l’ambiente ci chiede.
“Primo piano”, di Valeria Bellagamba, Caccia & Tiro 06/2022.
Uno dei pochi progressi soddisfacenti è stato fatto per ciò che riguarda l’istituzione delle aree protette sul 17% del territorio e sul 10% dei mari, obiettivi raggiunti rispettivamente per il 16,6% e per il 7,7%.