Proteggere sì, ma come? In Italia il dibattito sulla via migliore per salvaguardare fauna e ambiente è costantemente aperto. La frase “proteggere la natura” trova tutti d’accordo, ma quando si tratta di applicarla molto spesso ci si scontra con la convinzione che la scelta migliore sia “imbalsamare” una porzione di territorio: non intervenendo, perché “la natura poi ritroverà il suo equilibrio da sola” o, peggio ancora, intervenendo senza tenere conto dell’equilibrio generale dell’ecosistema. Al di là degli interessi specifici e delle convinzioni di parte, ciò che potrebbe mettere d’accordo tutti – ma così purtroppo non è – sarebbe operare secondo logiche scientifiche, basandosi sulla conoscenza delle specie, dei sottili meccanismi che regolano gli ecosistemi, degli innumerevoli studi sul tema. Senza contare che della natura sappiamo molto, ma non tutto, perché tante cose rimangono ancora un mistero e tante altre le abbiamo apprese proprio attraverso i nostri errori. In quest’ottica ci si potrebbe chiedere se “recintare” una porzione di territorio e dichiararla area protetta è sufficiente a salvaguardarne la biodiversità.
Un importante contributo a questo dibattito arriva da uno studio condotto dal prestigioso Museo di Storia naturale di Londra (Natural History Museum – Nhm) dal titolo “Towards 30by30: Balancing nature and people” (“Verso il 30×30: bilanciare natura e persone”). Dallo studio è emerso che la perdita di biodiversità sta aumentando più rapidamente all’interno delle principali aree protette che al di fuori di esse. Entrando nel dettaglio dei numeri, all’interno delle aree critiche non protette la biodiversità è diminuita in media di 1,9 punti percentuali tra il 2000 e il 2020, mentre nelle aree protette il dato è di 2,1 punti percentuali. “L’obiettivo 30×30 (fissato da un accordo intergovernativo per designare il 30% delle terre emerse e delle aree marine mondiali come aree naturali protette entro il 2030 – Nda) ha ricevuto tanta attenzione, come dovrebbe essere, ed è diventato un obiettivo chiave di cui si parla ai colloqui sulla biodiversità delle Nazioni Unite, ma volevamo capire se fosse davvero adatto allo scopo”, ha dichiarato al “The Guardian” il dottor Gareth Thomas, responsabile della ricerca e dell’innovazione presso Nhm. Secondo gli scienziati che hanno condotto lo studio l’approccio per attuare il 30×30 è stato, finora, quello di rafforzare ed espandere la rete globale di aree protette e conservate, “Tuttavia, – si legge nella pubblicazione dell’Nhm – la nostra analisi mostra che ciò potrebbe non essere sufficiente per far sì che il 30×30 funzioni a favore delle persone e del pianeta”. Il monito dei ricercatori è molto chiaro, quindi: designare semplicemente più aree come protette non si tradurrà automaticamente in risultati migliori per la biodiversità, perché tutto dipende da come queste aree vengono gestite: “Penso che se lo chiedessi alla maggior parte delle persone, darebbero per scontato che un’area designata come ‘protetta’ farebbe almeno esattamente questo: proteggere la natura. Ma questa ricerca ha dimostrato che non era così”, ha affermato il dottor Thomas. Dalle analisi degli scienziati emerge che sarebbero a rischio anche i servizi ecosistemici, ovvero quei servizi forniti dalla natura che influiscono direttamente e indirettamente sul benessere umano, tra questi: cibo, energia e materie prime, regolamentazione della qualità dell’acqua e stoccaggio del carbonio. “Oltre sei miliardi di persone dipendono dal 30% del territorio che fornisce i servizi ecosistemici più critici – ricordano gli studiosi – Attualmente, solo il 22% del territorio che fornisce questi servizi si trova all’interno della rete globale di aree protette. All’interno di questo 22%, l’integrità della biodiversità sta diminuendo più rapidamente di quanto non avvenga al di fuori delle aree protette. Ciò significa che gli attuali sforzi di conservazione non funzionano per sostenere questi servizi ecosistemici critici e rischiamo di perderli”. Gli autori dello studio hanno individuato alcune cause del fenomeno, sottolineando che le motivazioni potrebbero a volte essere legate al cambiamento climatico, al fatto che queste zone sono state dichiarate protette dopo aver subito un forte degrado o che in alcuni Paesi le politiche di conservazione potrebbero essere inficiate da corruzione, instabilità politica e mancanza di risorse, suggerendo che la valutazione delle cause dovrebbe tener conto delle peculiarità locali.
Visto che però anche in Paesi stabili e attenti all’ambiente si è verificato un calo maggiore di biodiversità nelle aree protette, gli scienziati hanno anche evidenziato che una causa del fenomeno potrebbe essere individuata nel fatto che molte aree protette non sono progettate per preservare l’intero ecosistema, ma piuttosto per salvaguardare alcune specie. Lo studio sottolinea la necessità di andare oltre l’approccio che consiste semplicemente nella designazione del 30% di aree protette entro il 2030, perché il raggiungimento di un numero non si tradurrà automaticamente in risultati migliori per la biodiversità e gli ecosistemi. In particolare, gli scienziati suggeriscono di “porre maggiormente l’accento sulla qualità di tali aree, sulla loro gestione efficace e sul valore che restituiscono alle persone e alla natura”. Gestione efficace, aree protette che restituiscono valore alle persone e alla natura. Una ricetta semplice, no? Non proprio, ma chissà, a forza di leggere studi come questo forse anche gli “imbalsamatori di natura” alla fine qualche passo indietro, e poi in avanti verso nuovi orizzonti, potrebbero farlo.
“Primo piano”, di Valeria Bellagamba, Caccia & Tiro 11/2024.
Lo studio condotto dai ricercatori del Natural History Museum di Londra sottolinea la necessità di andare oltre l’approccio che consiste semplicemente nella designazione del 30% di aree protette entro il 2030, perché il raggiungimento di un numero non si tradurrà automaticamente in risultati migliori per la biodiversità e gli ecosistemi – Foto Dominicus Johannes Bergsma – CC BY-SA 4. via Wikimedia Commons