IL PUNTO SULLA GESTIONE DEL CAPRIOLO

Non di rado l’affermazione che viene maggiormente pronunciata a proposito del capriolo è semplicemente quella che ce ne sono tanti, anzi, troppi. Indubbiamente, se guardiamo agli ultimi 50 anni, non possiamo fare a meno di constatare come nel nostro Paese il capriolo, sia nella sua versione mediterranea che in quella europea, abbia conosciuto una naturale imponente espansione demografica e territoriale. In seguito a questo straordinario incremento, a partire dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso, si è sviluppata quella che popolarmente viene definita la “caccia di selezione”. In realtà, in Italia, la gestione del capriolo non ha mai avuto niente a che fare con il concetto di “selezione”. L’attività venatoria nei confronti di questo ungulato è stata infatti basata, fin dai suoi esordi, sul principio di un prelievo venatorio proporzionato alla consistenza delle varie popolazioni, stimata tramite scrupolosi censimenti condotti, sotto la guida dei tecnici, da cacciatori formati, e ripartito in modo equilibrato tra adulti, giovani e piccoli, di entrambi i sessi.

A partire dall’inizio degli anni 2000, la situazione demografica di questo piccolo cervide appare, al di là delle naturali oscillazioni delle sue popolazioni da un anno all’altro e tra una zona e l’altra, sostanzialmente stabile. La specie cioè, come si dice in termini strettamente tecnici, appare aver raggiunto la capacità biologica portante del territorio: ciò significa che, capriolo più, capriolo meno, le diverse popolazioni si sono grossomodo stabilizzate. La cosa che invece è profondamente cambiata negli ultimi 20 anni, è la percezione del capriolo, che da animale capace di suscitare grande stupore e tenerezza è diventato per l’opinione pubblica fonte di preoccupazione a causa dei numerosi incidenti stradali che provoca e di accentuato disagio agli agricoltori per i danni che arreca alle colture agricole, in particolare ai vigneti specializzati.

L’esempio della Toscana
In conseguenza di un oggettivo aumento dei danni, sotto la spinta del mondo agricolo, in talune zone, come ad esempio la Toscana, la gestione della specie è andata incontro a profondi cambiamenti. Si sono così adottati criteri di razionalizzazione, classificando l’intero territorio in due diverse categorie: aree vocate al capriolo, laddove cioè l’ungulato può continuare ad essere gestito con criteri conservativi, e aree non vocate, nelle quali il cervide deve essere oggetto solo di un severo controllo numerico, al fine di abbassarne drasticamente le densità in funzione di una sostanziale diminuzione dei danni ai vigneti. Il problema è che, al di là di facili suggestioni e irrazionali pressioni, la situazione del capriolo appare degna della massima attenzione: nessuna specie, infatti, per quanto florida possa apparire la sua condizione, è scevra da pericoli.

Per i limitati dati di censimento in mio possesso, ad esempio, la situazione della specie in differenti ambienti, sia vocati che non vocati, appare nel complesso stabile. Ad esempio, nelle Crete senesi, zona altamente vocata per la specie, i dati ricavati dai censimenti notturni, condotti al termine dell’inverno, indicano una densità che, fatta eccezione per il dato anomalo del 2016, rimane negli ultimi 6 anni sostanzialmente stabile intorno ad un valore medio di circa 15 capi per 100 ettari (Figura 1). Nell’area della Val di Merse, altra zona molto vocata per il capriolo, i dati di densità indicano una situazione con variazioni annuali marcate, indotte con ogni probabilità dalla saltuaria presenza dei lupi, con un andamento comunque sostanzialmente positivo e con una densità media nel periodo considerato di circa 10 capi per 100 ettari (Figura 2). La terza situazione, collocata in un’area non vocata al capriolo, in quanto caratterizzata da un vasto numero di vigneti specializzati nella produzione di un vino Docg come la vernaccia di San Gimignano, mostra un rilevante aumento delle densità tra il 2013 ed il 2015 e poi, negli anni successivi, una sostanziale stabilizzazione della popolazione intorno ad un valore medio pari a circa 25 capi per 100 ettari (Figura 3), nettamente superiore, paradossalmente, alle densità raggiunte dalla specie nelle altre due aree vocate.

Questo quadro delinea all’apparenza una situazione stabile delle popolazioni di capriolo, anzi con una tendenza all’aumento piuttosto cha al declino. Tuttavia, se andiamo ad esaminare i dati di prelievo venatorio realizzati in un Distretto di caccia al cinghiale situato nell’area storica di presenza del capriolo, ovvero nell’area dove questa specie, Capreolus capreolus italicus, è autoctona e non si è mai estinta, vediamo come i carnieri, dopo avere raggiunto l’apice nella stagione venatoria 2008-2009, siano andati progressivamente diminuendo (Figura 4) a causa, con ogni probabilità, anche in questo caso, di una crescente predazione operata dai lupi. Di conseguenza la situazione nel prossimo futuro si presenta quanto mai delicata: da una parte l’orientamento verso un forte prelievo venatorio, soprattutto nelle aree non vocate (ma anche in quelle vocate non si va tanto per il sottile), dettato dall’esigenza di ridurre i danni agricoli, dall’altra una pressione predatoria esercitata dai lupi, per ora non ancora quantizzata con sufficiente precisione, ma certamente, per quello che è dato vedere, assolutamente non trascurabile.

Le brucature nei vigneti specializzati
Ora più che mai, la gestione del capriolo necessita di equilibrio. Ad esempio, nella valutazione dei danni ai vigneti specializzati. Questi si verificano, in gran parte, tra marzo e aprile a causa della brucatura da parte dei caprioli dei teneri germogli primaverili delle viti. Tali brucature possono avere effetti pesanti. Infatti, oltre ad impedire la successiva fruttificazione, possono indurre uno sviluppo di getti secondari, capaci anch’essi di comportare una perdita nella produzione delle uve, arrivando, nei casi più estremi, a danneggiare irrimediabilmente le piante stesse. Questo tipo di danni tende inoltre ad essere localizzato prevalentemente nelle vigne presenti nei fondovalle collinari, in vicinanza dei margini dei boschi, cioè degli ambienti di rifugio dei caprioli. Per meglio comprendere i contorni del problema, occorre tenere presente che il periodo nel quale si verifica la brucatura dei germogli coincide con un momento del tutto particolare nella biologia del capriolo.

I gruppi familiari di questo piccolo cervide sono composti dalla madre coi suoi piccoli, in procinto di compiere il primo anno di vita, e dal maschio. In questo periodo dell’anno, durante il quale l’offerta alimentare è minima, i vari gruppi familiari tendono a radunarsi intorno alle poche fonti di alimentazione disponibili. Questa sorta di adunate, che possono dare l’erronea sensazione di trovarsi di fronte a veri e propri branchi, sono in realtà delle aggregazioni del tutto temporanee, dettate solo da ragioni alimentari. Sono consentite dal fatto che i maschi adulti in questo periodo, diversamente da quanto avviene durante il resto dell’anno, allorché sono strettamente territoriali, possono coesistere l’uno accanto all’altro perché non è ancora iniziata la stagione riproduttiva.

Ferma restando l’esigenza di dover controllare, sia pure in modo oculato, le popolazioni di capriolo, cosa è possibile fare in concreto per prevenire i danni agricoli? Una delle cause di questa forte attrazione per le gemme della vite è data, oltre che dal loro forte contenuto energetico, dal fatto che, in quest’epoca, nelle zone dove prevalgono i vigneti, sono anche quasi le uniche occasioni di foraggiamento. Ai giorni nostri, infatti, l’agricoltura collinare, fatta eccezione per la redditizia produzione di vini di qualità, ha pressoché abbandonato le colture cerealicole, divenute ormai non più remunerative. Di qui, la vasta presenza di campi incolti, se non addirittura abbandonati. Così all’interno di questi appezzamenti, in questo preciso periodo dell’anno, sono venuti a mancare i cereali in erba, molto appetiti dai caprioli, ed al loro posto si è venuto a creare un manto erboso reso ancor meno attraente in quanto ancora in stasi vegetativa.

Una possibile attenuazione dei danni potrebbe pertanto essere ottenuta tramite la semina negli appezzamenti incolti di alcune strisce di lupinella, un’erba foraggera talmente gradita dai caprioli dall’essere in grado di trattenerli lontano dalle vigne. Anche la dissuasione ad ultrasuoni, tanto per fare un altro esempio, si è dimostrata capace di respingere questi ungulati, con il vantaggio di non deturpare il paesaggio e d’impedirne il passaggio, così come, viceversa, inevitabilmente fanno le recinzioni fisse.

In conclusione, la gestione del capriolo si trova davanti ad un classico bivio: degradarsi a puro e semplice prelievo venatorio o elevarsi a gestione a 360 gradi, capace quindi di coniugare il controllo con una saggia conservazione.


“Il punto sulla gestione del capriolo” di Roberto Mazzoni Della Stella, Caccia & Tiro 2/2021 – © Enzo Fauna – CC BY-SA 4.0


Condividi l'articolo su: