LA CACCIA NELL’ALTO MEDIOEVO

Con questo articolo apriamo un piccolo grande spaccato, a cui daremo quindi seguito anche nei prossimi numeri della rivista, sugli usi e costumi venatori che hanno caratterizzato un periodo storico come quello, ad esempio, in cui visse Dante Alighieri. Periodo in cui in Italia gli ambienti naturali, ricchi di fauna selvatica, occupavano un ampio spazio e costituivano una risorsa importante. La migrazione e l’insediamento dei Longobardi in gran parte della penisola, inoltre, avevano sovrapposto nuovi usi e costumi di carattere germanico a quelli latini precedenti. Mentre il diritto latino tendeva a focalizzarsi sui rapporti tra l’autorità, i singoli individui e la proprietà privata, il diritto tradizionale dei popoli germanici dava rilievo alle relazioni sociali e alla gestione dei beni comunitari. La rinascita civica che si sviluppò dopo il Mille fu perciò anche figlia del connubio tra queste due ideologie. Ne derivarono strutture politiche originali, i Liberi Comuni, e tutto un modo di organizzare la società. Le attività agricole ripresero vigore e tornarono a svilupparsi i commerci, mentre la popolazione aumentò progressivamente di numero. Stime attendibili indicano che nei primi decenni del XIV secolo la popolazione del territorio italiano fosse risalita a circa 11 milioni di persone, con una densità quindi di 36 abitanti per chilometro quadrato, cioè di poco superiore a quella degli attuali Stati Uniti.

L’alimentazione della gente comune era basata essenzialmente sui cereali, consumati in forma di pane lievitato, accompagnato da legumi e verdure, più raramente da pesce o carne. Il vino, di qualità meno raffinata rispetto a quello odierno e spesso diluito con acqua, era consumato in abbondanza come integratore alimentare. Il consumo ordinario di carne, da animali allevati o selvaggina, era un tratto distintivo dei ceti privilegiati. Nei secoli del tardo Medioevo vi fu una convivenza di forme di caccia utilitaria e comunitaria con attività venatorie più esclusive e rappresentative dei privilegi d’élite. I metodi di caccia erano molto vari e adattati sia alla selvaggina che alle diverse condizioni ambientali. La caccia per mezzo di trappole, reti e lacci era praticata dove consentito dalle consuetudini e dalle autorità locali. L’abbattimento per mezzo di armi di vario genere era regolato a sua volta in modo molto rigido. Un terzo metodo di caccia, molto ristretto per via degli alti costi di esercizio e del modesto carniere che procurava, era la falconeria. La caccia col falco era una tradizione nata tra i popoli nomadi delle steppe asiatiche, importata in Europa dal Medio Oriente.

Il mantenimento di uno o più falconi nel contesto di una società stanziale richiedeva uno spazio dedicato allo scopo, nonché una disponibilità continua di carne. Ciò ne faceva un passatempo esclusivo e ricercato per alcuni membri dell’élite dirigente. Dove prevalevano regimi di tipo feudale erano esclusivamente il signore ed i suoi familiari a detenere i diritti di caccia sul territorio. Tali diritti potevano essere delegati a personale ausiliario alle loro dipendenze. Dove invece si instaurò il controllo da parte di città-repubblica a statuto comunale i diritti di caccia, pur regolati con molta cura, rimasero accessibili ad un più ampio numero di individui, corrispondente più o meno a coloro che risultavano caricati degli obblighi militari. La pratica della caccia era comunque subordinata alla possibilità di accesso ad un ambiente naturale con presenza di selvaggina di qualche genere, cosa che nel periodo in questione veniva limitata da una serie di fattori.

Gli statuti delle città e dei borghi che sorgevano nelle campagne coltivate attorno, redatti per regolare la vita civile della popolazione, includevano alcune normative sulle attività venatorie. In genere facevano riferimento alla caccia ai volatili, con attenzioni rivolte alla salvaguardia dell’allevamento dei colombi che doveva essere ampiamente praticato. Maggiori possibilità di praticare la caccia, anche a selvaggina più impegnativa, l’avevano i membri delle piccole comunità marginali delle zone collinari o montane, dove prevalevano i boschi. Nell’Italia centrosettentrionale interessata dal fenomeno comunale, oltre ai veri e propri castelli feudali, si erano formati una quantità di borghi fortificati costituiti da molte proprietà, comunemente detti a loro volta “castelli”. Questi piccoli borghi, normalmente dipendenti da una città-repubblica o da un vescovato, erano retti da un pubblico ufficiale eletto in loco o dal rappresentante di un’autorità esterna, sulla base di statuti concordati e accettati formalmente da tutti i residenti. Non tutto ciò che fu prodotto in termini di documentazioni si è salvato, ma gli archivi italiani sono tra i più ricchi al mondo di carte relative alla vita quotidiana del passato.

Grazie all’impegno di validi ricercatori che si cimentano nel leggere, trascrivere e pubblicare manoscritti d’epoca, possiamo talvolta ottenere preziose informazioni su realtà lontane nel tempo. Un interessante campionario di notizie su come si organizzavano le attività venatorie in una piccola comunità montana dell’Appennino tosco-emiliano tra la fine del XIII secolo ed i primi decenni del XIV ci viene dallo Statuto della Sambuca Pistoiese, redatto nel 1291 e riformato nel 1340, anno al quale risale la copia sopravvissuta.

Il borgo fortificato corrispondeva all’attuale località di Sambuca Castello, a 736 metri di altitudine, ed era munito anche di una rocca, della quale rimangono alcuni resti. Il documento contiene alcuni paragrafi con normative abbastanza minuziose sulle modalità di pratica della caccia grossa, soprattutto per quanto riguarda diritti e doveri dei cacciatori. E, come tutti i documenti ufficiali dell’epoca, fu scritto in latino, in una forma però volgarizzata nella struttura e contenente molti termini medievali correnti all’epoca. Anzitutto (paragrafo CLXVI dello Statuto) viene stabilito quale sarà la parte di cacciagione che spetterà come omaggio al vescovo di Pistoia, signore formale del borgo-castello della Sambuca. Si ordina che chiunque catturi il primo capriolo dell’anno, cominciando l’anno a gennaio e durando sino al gennaio seguente, tale capriolo sia dovuto al vescovo. Del primo orso catturato dall’inizio dell’anno il vescovo deve ricevere la testa e se sarà una femmina la spalla. Il paragrafo successivo (CLXVII) stabilisce le modalità di caccia. Come tipico di questi documenti medievali, i termini sono molto concisi. Frasi di poche parole sintetizzano concetti e situazioni abbastanza complesse, ben comprese nel contesto originario ma non sempre evidenti oggi. Si ordina che qualunque uomo residente nel castello della Sambuca o nel suo distretto che vada a caccia, non agendo per conto dell’autorità, per tale scopo debba costituire con altri una società ed eleggere uno o due capitani. Essi devono accogliere nella detta società di caccia chiunque dei residenti della Sambuca voglia partecipare, che sia al di sopra dei 14 anni di età.

Al di sotto di tale età non si deve cacciare e se ciò avvenisse il ragazzo non può pretendere una parte di caccia. Chiunque partecipa alla ricerca e ad un inseguimento con la sua società di caccia ha diritto ad una parte della preda. I soci che non partecipano effettivamente alla battuta non devono avanzare pretese. Chiunque sopravviene casualmente sul luogo della battuta, pur non facendo parte della società di caccia, se è presente all’abbattimento riceverà una parte della preda come i cacciatori. Chiunque stana un capriolo ha poi diritto a ricevere le interiora (in aggiunta alla parte ordinaria di carne). Lo stesso per chi stana e abbatte cinghiali e orsi. Si ribadisce che chiunque, in qualunque modo, sia attratto dai rumori della caccia, se si trova presente all’abbattimento della preda o anche nei pressi di essa e dei suoi abbattitori prima che la detta preda sia rimossa dal luogo della cattura, ha diritto a partecipare alla spartizione.

E se non ci fosse su ciò concordia, la questione deve essere portata al giudizio del Consiglio e della Reggenza del Comune della Sambuca (una multa era stabilita per chi contravvenisse a questa clausola). Un successivo paragrafo (CLXVIII) stabilisce alcune altre norme di comportamento di varia natura. Si ordina perentoriamente a coloro che partono per la caccia in inverno, quando c’è molta neve, di portare calzature speciali, definite “scarpaccias”, stabilendo una multa per i contravventori. Era poi vietato a tutti di portare alla battuta cani che non fossero mastini, levrieri o veltri, sia maschi che femmine, sotto pena di una multa a beneficio dell’autorità laica ed ecclesiastica. Il proprietario del cane non poteva chiedere una parte di preda in più per il suo animale. Il cacciatore che si ritirava dalla battuta prima degli altri associati senza autorizzazione del suo capitano di caccia non aveva diritto a partecipare alla spartizione della preda di quella giornata… (Continua).

 

Bibliografia

Su questi argomenti: a cura di Manila Soffici, Lo Statuto della Sambuca (1291-1340), Pacini Editore, Ospedaletto (Pisa) 1996.


“La caccia nell’Alto Medioevo” di Alessio Cenni, Caccia & Tiro 2/2021 – Foto © Metropolitan Museum of Art – CC0


 

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